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De vita et morte ac quo in medio stat

28 Settembre 2019

– O Critone, disse, dobbiamo un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve ne dimenticate. – (Platone – da “Il Fedone”- sulla morte di Socrate)

“Ho la condanna e l’onore di lavorare nel luogo più sacro e caotico del mondo; un posto per nulla asettico, il luogo dove ormai quasi per tutti, tutto comincia e tutto finisce, il posto dove la vita irrompe prepotentemente nelle sale parto e dove mestamente si congeda abbandonando gusci vuoti alle sale morgue”; è proprio qui, negli ospedali, che la vita si manifesta in tutto il suo inestimabile valore, nella sua ineffabile natura e nella sua effimera durata. Nella vita profana io sono un medico.

Ma non della vita vi voglio parlare e nemmeno della morte; parlerò di quello che ci sta in mezzo e chi, se non un medico, è più titolato a farlo, in quanto osservatore ed attore privilegiato di quel confine, di quel non luogo, che separa la vita dalla morte. Osservatore del dolore e della sofferenza dei suoi simili; attore appassionato o semplice esecutore meccanico di quanto l’uomo possa fare al fine soccorrere altri uomini, da millenni, che vesta i panni di stregone o di sacerdote o quelli forse più improbabili di scienziato, quando non guarisce o semplicemente cura, spesso si limita ad accompagnare alla meta ineluttabile, come novello psicopompo, ed impotente facilitatore.

Un Medico spesso, spessissimo è chiamato a fare delle scelte; quasi sempre in solitudine. La solitudine delle scelte è la diretta conseguenza della frequente irrevocabilità di quelle scelte; sono scelte che condizionano il destino delle persone ed il proprio personale di chi si trova, per compito di istituto, a fare quelle scelte; ma non cercate di riempire quella solitudine, di per se ineluttabilmente incolmabile, cercate piuttosto se potete, se volete, di moltiplicare l’amore e la benevolenza per quanti chiamati alla scelte irrevocabili perché, davanti a Dio, dovremo render conto della nostra vita e di quella delle tante persone che il caso o il destino ci ha consegnato; perché davanti a Dio non andremo soli, ma con i bagagli colmi delle nostre responsabilità, carichi del peso delle nostre azioni, schiacciati dal fardello delle nostre omissioni.

Mi riferisco all’eutanasia, la dolce morte, così come viene correntemente interpretata l’etimologia greca del termine; io non so’ quale morte sia dolce, bella o giusta ma di certo comprendo l’esigenza di una morte dignitosa, cosi come specularmente esiste il diritto ad una esistenza dignitosa.

Il punto non è decidere della propria esistenza, quello mi pare ovvio ed inoppugnabile. Ognuno decide per sé, rispondendo a sé stesso e alle proprie convinzioni etiche, morali e religiose e se possibile, quando possibile, anche alla legge degli uomini; il punto è quando bisogna decidere dell’esistenza degli altri, di quanti spesso non più in grado di esprimere quella personalissima decisione o di quanti non in grado di porre in essere autonomamente quella determinazione.

Non ho risposte in tal senso; a malapena coltivo e posso condividere domande con altri perché è nostro compito, compito della Massoneria, interrogarsi, seminare dubbi ed abbattere dogmatiche certezze.

Quale prezzo siamo disposti a pagare per poter compiere quello che noi riteniamo la cosa giusta? Chi decide qual è la cosa giusta e quando è il momento di fare la cosa giusta?

Se il diritto alla vita è uno dei diritti inalienabili dell’uomo lo è parimenti anche il diritto alla morte?  Il diritto ad una fine esistenza dignitosa? 

Chi può arrogarsi il diritto di decidere la morte di un proprio simile e chi, alla stessa maniera, può arrogarsi il diritto di decidere un’esistenza ad oltranza, contro ogni volontà, contro ogni opportunità, contro ogni dignità?

Occorrerebbe forse rispettare quanti, che come l’imperatore Adriano nelle famose memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, intendono «entrare nella morte a occhi aperti», o quanti trovano nella morte un gesto di doveroso pudore per sé e per gli altri.

Noi siamo solamente spettatori, in attesa del nostro turno, sperando che il caso o il destino non ci obblighi a scegliere ma che semplicemente si compia.

Comprendo l’oggettiva difficoltà del legislatore a normare ciò che norma non può regolare o recintare, quel confine sconfinato, quella terra di nessuno, dove dignità e pietà si incontrano, dove libero arbitrio e senso comune si scontrano.

Ma la nostra laica equidistanza ci obbliga a guardare con occhi asciutti anche le lacrimevoli storie della vita. Noi siamo coscienti che la pietà umana può e deve essere declinata oltre i paradigmi imposti dalle morali religiose e dalle umane leggi, spesso in ritardo rispetto al comune sentire o comunque in difetto rispetto alla volontà del singolo gravemente offeso dalla malattia; malattia, di fronte alla quale, alcuni trovano paradossalmente speranza nella morte ed in quelli che possono e vogliono aiutarli in questa loro determinazione, e questo anche a rischio della propria incolumità giudiziaria. Sono quelle storie che ricuciono nello stesso lembo speranza e dolore. Agrodolci, come molte delle storie che si narrano nel luogo della sofferenza; delle lacrime che incitano alla ribellione, perché sempre divampa la rabbia quando l’oltraggio di una malattia colpisce l’innocenza degli uomini inermi, indifesi e resi indifendibili dalla offesa e dalla beffa di un’accanita condanna alla vita o alla morte, come nel caso di recente balzato alle cronache del piccolo Alfie Evans, che un giudice britannico ha deputato alla morte ex lege e questo contro la volontà dei genitori.

E ancora, subendo l’offesa opposta, Englaro, Welby, Coscioni, Antoniani sono solo alcuni dei nomi che la ribalta mediatica ha consegnato all’opinione pubblica. Ognuno di loro ha lottato, all’opposto, contro la condanna all’obbligo di vita ex lege; ognuno di loro ha dovuto combattere strenuamente per conoscere lo stesso dio di Socrate.

Per quanto mi riguarda, 25 anni di professione, mi hanno insegnato a rispettare e dare la giusta importanza alla vita quanto alla morte, parimenti. E che altro dirvi:

Io sono Esculapio ed offro, quando ne ho, vita e guarigione o, più spesso, semplice cura agli uomini e, quando tanto non basta, offro conforto e sollievo ai loro tormenti anche se questo spesso non è sufficiente; e allora che essi siano Socrate o siano Critone, io offro loro quello che rimane quando tutto è perduto, quanto di irrinunciabile ci resta anche di fronte alla malattia più terribile, o alla sconfitta più cocente, a loro tutti io offro dignità;  anche se la mia dignità qualche volta si chiama cicuta; tu bevi, se vuoi, se ne vuoi, io servo; servo della tua volontà ed ultimo bastione alla tua disperazione, non dio della vita e della morte, ma semplice servo, servo dell’uomo che soffre e tutto al modico prezzo di un gallo, un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve ne dimenticate.

Filippo Calì

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